Il labile confine tra il diritto d’immagine e la libertà di manifestazione del pensiero in un post su facebook

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In un recente caso di cui ci siamo occupati nel nostro studio è emerso il labile confine tra il diritto di
immagine (il quale, nel nostro ordinamento rappresenta una delle espressioni del diritto alla
riservatezza rientrante della tutela dei diritti della personalità ex art. 2 Cost.) e il diritto alla
manifestazione del pensiero (tutelato costituzionalmente all’art. 21) in un post dal linguaggio
denigratorio pubblicato sulla bacheca facebook.
La rilevanza delle problematiche connesse alla riservatezza dell’individuo è particolarmente attuale
in considerazione dell’evoluzione tecnologica che ha comportato un’esposizione più frequente della
immagine degli individui sui social media.
Proprio in relazione a tale fenomeno, la giurisprudenza di legittimità ha recentemente affermato,
nella sentenza n. Cass. pen., Sez. V, Sent., 20.10.2022, n. 39805, che la comunicazione di contenuti
diffamatori attraverso la bacheca facebook di un utente costituisce diffamazione aggravata ai sensi
dell’art. 595 c.p., co. 3, in quanto, essendo considerato facebook un “luogo aperto al pubblico”, la
condotta suddetta è considerata potenzialmente capace di raggiungere un numero indeterminato o
comunque quantitativamente apprezzabile di persone.
Al riguardo, però, è opportuno sottolineare che tale orientamento deve essere valutato alla luce
delle altre pronunzie giurisprudenziali: nella sent. Cass. pen., sez. V, 14.02.2014, n. 14067 è stato
specificato che l’idoneità a ledere il rispetto di un individuo tramite l’utilizzo di un linguaggio
volgare deve essere valutata non soltanto in rapporto al c.d. profilo soggettivo (ossia alla personalità
sia dell’offeso sia dell’offensore), ma anche in relazione al profilo oggettivo (la condotta deve
essere valutata in relazione al contesto nel quale tali espressioni siano state pronunciate, nonché alla
coscienza sociale.
La contestualizzazione della condotta posta in essere emerge in modo più evidente anche in
riferimento ai profili civilistici di tale responsabilità. Infatti, ai fini della risarcibilità del danno
d’immagine conseguenti al reato suddetto, sorge in capo all’offeso il diritto al risarcimento del
danno sotto il profilo della responsabilità aquiliana ex art. 2043 cc.
Tuttavia, in sede civile, l’offeso deve provare il danno subito – nella forma di danno emergente o
lucro cessante – derivante dalla diffusione della notizia diffamatoria, dimostrando non soltanto la
potenzialità lesiva del fatto, ma anche la concreta ripercussione nociva sulla vita del soggetto
leso. Il danno all’immagine e alla reputazione – conseguente al post diffamatorio – non sussiste in
re ipsa: ciò significa che non è sufficiente affermare la potenzialità della lesione del diritto di
immagine ma deve essere provato il danno non patrimoniale subito in concreto. I criteri che
concorrono alla liquidazione del danno sono: la diffusione (concreta e non potenziale) dello scritto,
la rilevanza dell’offesa e la posizione sociale della vittima.
Concorrono altresì alla quantificazione del danno anche altri parametri: la diffusione dello scritto, la
rilevanza dell’offesa e la posizione sociale della vittima.
È opportuno, inoltre, considerare il confine dell’idoneità del fatto (nel caso di specie, commento
offensivo su facebook) con la tutela di altri diritti. In particolare, in ambito penale le esimenti (ossia
le cause di esclusione della configurabilità del reato di diffamazione) sono il diritto di cronaca
giudiziaria e, più in generale, il diritto di critica; nonché il più ampio diritto alla manifestazione del
pensiero tutelato costituzionalmente all’articolo 21, che, attraverso l’articolo 51 c.p., esclude la

punibilità in quanto “esercizio di un diritto”. Con riguardo ai profili civilistici della questione, al
fine di stabilire il confine tra la condotta offensiva e la libertà di manifestazione del pensiero diviene
fondamentale considerare anche la c.d. “continenza espressiva” ossia il linguaggio utilizzato anche
in considerazione della personalità dell’autore che pone in essere un linguaggio c.d. “colorito e
pungente”: tale parametro valutativo consente di avere una consistente tolleranza nella valutazione
dell’offesa.
La Cassazione ha affermato, infatti, che si possa utilizzare un linguaggio colorito anche per il diritto
di critica, dunque si può ben affermare, a maggior ragione, che quest’ultimo possa essere utilizzato
nell’ambito della manifestazione della libertà di pensiero. Con il diritto di critica “si manifesta la
propria opinione, che non può pertanto pretendersi assolutamente obiettiva e che può essere
esternata anche con l’uso di un linguaggio colorito e pungente”. (Cass. Civ., sez. III, 31.03.2006, n.
7605).

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