Gherardo Colombo: “Perché ho lasciato la magistratura”

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Ho lasciato la magistratura dopo oltre trentatré anni, dopo aver fatto prima il giudice, poi il pubblico ministe­ro, poi di nuovo il giudice. Mi sono dimesso perché in­dagine dopo indagine, processo dopo processo, senten­za dopo sentenza mi sono convinto che mi sarebbe sta­to impossibile – da quel momento – contribuire a rende­re l’amministrazione della giustizia meno peggio di quel che è. Progressivamente mi sono convinto che, perché la giustizia cambi, sarebbe stato utile piuttosto intensi­ficare quel che già cercavo di fare nei momenti lasciati liberi dalla professione: girare per scuole, università, parrocchie, circoli e in qualunque altro posto mi invi­tassero a dialogare sui tema delle regole. La giustizia non può funzionare se il rapporto tra i cittadini e le re­gole è malato, sofferto, segnato dall’incomunicabilità.
Non può funzionare l’amministrazione della giusti­zia, quel complesso che coinvolge i giudici, i tribunali, le corti, gli avvocati, i pubblici ministeri, le prigioni, le persone sul cui destino tutto ciò incide il più delle volte pesantemente. E non può funzionare la giustizia intesa come punto di riferimento, come base dei rapporti tra gli abitanti del mondo, dispensatrice, prima ancora che verificatrice, di quel che spetta e quel che è tabù, delle possibilità e dei carichi, degli ordini e dei divieti, delle li­mitazioni e delle libertà.
La giustizia non può funzionare se i cittadini non comprendono il perché delle regole. Se non lo compren­dono tendono a eludere le norme, quando le vedono fa­ticose, e a violarle, quando non rispondono alla loro vo­lontà.
Perché la giustizia funzioni è necessario che cambi questo rapporto.
Mi sono dimesso per portare il mio granellino di sab­bia sulla strada del cambiamento.
(G. C. Sulle regole)